Non più di qualche sera fa sulla rete ammiraglia della RAI, durante un sepolcrale programma che avrebbe dovuto celebrare L’Unità (!) d’Italia, è andato in scena l’ultimo pietoso esame autoptico di quello che resta della memoria storica del nostro paese. Su una pagina decisiva e complessa come quella della Resistenza, schierati come due tifoserie opposte, da un lato i dogmatisti ortodossi della guerra di liberazione (Mario Pirani e Lucio Villari) e dall’altro l’ultrarevisionista Pansa e il post-(neo?)fascista Pietrangelo Buttafuoco si sono scagliati reciproche accuse per più di un’ora, implodendo alla fine dentro una sterile disquisizione lessicale (la Resistenza come guerra civile o come guerra di liberazione?) senza via d’uscita. E’ stata la più lampante dimostrazione che ancora oggi, a distanza di più di 60 anni da quegli eventi così fondamentali per il destino del nostro paese, ancora non esiste in Italia una memoria condivisa, pacificata, storiograficamente coesa di quel pezzo di Storia. Parlare di Resistenza, anche attraverso il cinema, ha spesso significato in passato scivolare nella retorica facile dell’agiografismo ideologico. Giorgio Diritti, con il suo secondo film, il bellissimo “L’uomo che verrà”, ha corso questo rischio fino in fondo, consapevole delle enormi difficoltà e responsabilità che un progetto del genere gli avrebbe posto sul cammino. La scommessa però è stata vinta, e davvero “L’uomo che verrà” è riuscito a ritagliarsi un posto di assoluto rilievo tra quei film che rappresentano (e rappresenteranno) un patrimonio per la nostra coscienza civile. La ricchezza del film di Diritti sta tutta nella sua peculiarità di sguardo. Se già con “Il vento fa il suo giro” il regista ci aveva fatto intravedere le tracce di una poetica che afferra, scruta il mondo dal basso e dalla periferia, ne “L’uomo che verrà” la scelta di fare di una bambina la testimone muta e atterrita della Storia ha confermato questa precisa volontà espressiva. Protagonista del film è la comunità di contadini di Monte Sole, dipinta nei colori densi del dialetto locale. Una comunità di enorme dignità, travolta da eventi capitali in apparenza inspiegabili, frutto di decisioni prese altrove delle quali però è presto possibile percepire gli echi di morte. Il senso di una percezione distante, lontana, sfumata, si rinnova dolorosamente lungo tutti gli snodi fondamentali del film. Quasi a sottolineare il valore intrinseco (e poetico) dell’invisibile, di quello che è soltanto percepito. Anche attraverso gli occhi della fede e di una elementale, luminosa religiosità popolare, depurata da ogni sovrastruttura "adulta" o intellettuale. Martina e sua madre osservano, immerse in una silenziosa preghiera, i bagliori di un lontano bombardamento. Martina scorge oltre il vetro della finestra della sua stanza i bianchi paracaduti dei soldati, credendoli tutti tanti fratellini in arrivo dal cielo. E anche il momento culminante del film, la strage di innocenti sul suolo sacro del cimitero del paese, è sottratto al nostro sguardo, lasciandoci percepire solo i suoni lacerati di quegli attimi di convulsa tragedia. Sospeso tra Olmi e Kieslowski, Diritti ha regalato all'asfittico cinema italiano degli ultimi anni un film bello e importante, di esemplare rigore, purezza, generosità e attenzione storica. L’essenziale è invisibile agli occhi, sembra suggerirci L’uomo che verrà citando Saint-Exupery. E le ferite insanguinate della nostra storia sono il segno che forse siamo ancora vivi. E non sappiamo di esserlo.
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