Travels with Werner

“Grido di pietra”, 1991

 

In giorni di più o meno festanti e/o compulsivi esodi di massa e di infestanti, parossistici e ubiqui messaggi di promozione turistica, il cinema di Werner Herzog può rappresentare l’antidoto ideale alla commercializzazione/omicidio del paesaggio/ambiente. Il viaggio di questo post (mai una conquista, sempre una ricerca) comincia nel 1991. Sulle montagne aspre e innevate della Patagonia. Il Cerro Torre è la vetta mai prima raggiunta da essere umano, ennesimo luogo “vergine” del cinema di Herzog e perfetta ribalta-sfida per esploratori e cacciatori di imprese e immagini mai viste. Due scalatori, animati da diverse ambizioni e diversi modi di vedere la natura, si avventureranno nella scalata, mentre un subdolo produttore televisivo (Donald Sutherland) cercherà invano di accaparrarsi l’esclusiva dell’evento. Troppo tardi: qualcuno su quella vetta ha già lasciato un piccone e una foto di Mae West. Finale memorabile, per un film che di certo non costituisce il capitolo più riuscito della filmografia herzoghiana. L’idea di base della sceneggiatura fu proposta ad Herzog da Reinold Messner, e nella sua stesura Herzog ebbe un ruolo del tutto marginale, portando il regista bavarese a non sentire mai completamente “sua” quest’opera. Il film, coprodotto anche da Rai 2, ricevette all’epoca una accoglienza poco calorosa. Vittima di un impianto che in molte occasioni sembra quasi sfuggire verso la fiction televisiva, “Grido di pietra” contiene però tanti elementi (forse in questo film ancora più esplicitati che altrove) fondanti della poetica herzoghiana. Il personaggio di Brad Dourif è per esempio la reincarnazione di tutta una serie di grandi folli visionari che popolano il cinema di Werner Herzog. E la sua comprensione/identificazione con la natura è la stessa di uomini come Woyzeck, o come Timothy Treadwell.

 

 

“Gesualdo: morte a cinque voci”, 1996

La magia, l’occulto, l’inconscio sono terreni che Werner Herzog ha sempre frequentato con proficuo interesse. “Cuore di vetro” è un film girato da un cast interamente in stato di ipnosi, indotta dallo stesso Herzog. A questo, per provare a comprendere la genesi profonda di un film come “Gesualdo”, dovrebbero essere aggiunti l’ammirazione (costante) per le vite di uomini straordinari e la appassionata ricerca musicale, che da sempre, dai tempi dei Popul Vuh fino alle più recenti collaborazioni per “L’ignoto spazio profondo” con i cantori sardi di Orosei, Werner Herzog ha condotto attraverso il suo cinema. Tutto questo può aiutare a capire cosa abbia spinto Herzog a realizzare un (bellissimo) documentario sulla vita e le opere di Carlo Gesualdo. Nato a Venosa, in provincia di Potenza, nel 1560, Gesualdo è stato un notevolissimo compositore di musica polifonica. Conosciuto, studiato e ammirato più all’estero che in Italia, ha impresso nelle complesse maglie sonore dei suoi madrigali i segni di una personalità disturbata e inquieta. Nel 1586 si unì in matrimonio con la cugina Maria D’Avalos. Solamente 4 anni dopo, appurata l’esistenza di una relazione che Maria intratteneva con il conte Fabrizio Carafa, si rese protagonista di un duplice, efferatissimo omicidio di gelosia. Non pago di tanta violenza, eliminò con inumana ferocia anche il bambino da lui ritenuto frutto dell’adulterio. Le sue composizioni, turgide di passioni e gravate da un aleggiante senso di morte, hanno suscitato l’ammirazione e l’interesse di molti compositori. Stravinskij e Wagner hanno letto nella loro raffinata tessitura polifonica una sorta di geniale prefigurazione delle direzioni che la musica espressionista avrebbe percorso tre secoli dopo. Werner Herzog, attratto da questa figura di genio fosco e luciferino, ha visitato con la sua macchina da presa i luoghi (fisici e musicali) abitati dallo spirito di Carlo Gesualdo. Restituendone un ritratto straordinariamente vivido, cronaca del duello tra gli angeli e i demoni che lacerano la psiche umana. Immagine di quello che a Gesualdo ogni anno, intorno alle antiche mura del castello, prende vita l’ultima domenica di Agosto.

 

“Invincibile”, 2001

Il viaggio di questo post si conclude à rebours nella Berlino del 1932. Anno in cui Zishe Breitbart, giovane e nerboruto fabbro ebreo, abbandona la famiglia in Polonia per raggiungere la capitale tedesca, attratto dalle promesse di un impresario circense. Sfruttando la sua poderosa forza fisica e l’apparenza teutonica del giovane, un misterioso e ambiguo gestore di un locale notturno (un grande Tim Roth) costruisce su di lui un grosso successo commerciale. Applaudito dai gerarchi del partito nazista e esaltato come modello di perfezione ariana, Zishe si vede costretto ad una forte e coraggiosa presa di posizione identitaria, trascinando verso l’affermazione di una verità negata anche il suo inquietante datore di lavoro, nel frattempo assurto a profeta del terzo Reich grazie alle sue efficaci messinscene occultiste. Il finale (del film, come della storia vera, ammantata di leggenda, a cui il film è ispirato) non lascia spazio all’ottimismo, ma non tradisce nemmeno l’atmosfera di favola/sogno fuori dal tempo che pervade tutto il film. Nello slancio onirico e surreale, e negli sprazzi di alcune memorabili immagini e colori (il rosso dei granchi sulla scogliera, eco del regno di Bokassa) le cose migliori di un film, comunque, importante e necessario. In cui Herzog ha voluto mettere da parte gli elementi più autoriali del suo cinema per lasciare più spazio possibile alla narrazione di una storia cruciale ed “esemplare”. Raccontata con le cadenze semplici e antiche di una ballata tragica.