“We can’t go home again”


 

 


Un incrocio tra Noè, un pirata e Dio. È Nicholas Ray al timone della sua ultima, leggendaria, avventura. We can't go home again, ultimo tassello dilatato, frammentato, mai compiuto, di una filmografia che è momento centrale di tutta la storia del cinema. Se Nicholas Ray è il cinema, il suo ultimo film è un dispositivo perfetto di detonazione applicato al concetto stesso di narrazione cinematografica. La sperimentazione, radicale e radicata dentro un’idea di profondo rinnovamento del linguaggio, si applica su tre fronti. La creazione di un microcosmo di relazioni umane e professionali totalmente inedito: Ray docente di cinema presso l'università di Binghamton, New York, nel 1976 coinvolge i suoi studenti nel concreto processo di realizzazione di un film, permettendogli di sbagliare e conoscere da vicino tutti i mestieri del cinema.

 

È l'occasione ideale per Ray per entrare in intimo contatto con la generazione transitata dagli entusiasmi degli anni Sessanta al ripiegamento individualistico dei Settanta, e per compiere su se stesso un percorso di maturazione dalla incarnazione totale di film-maker verso il complesso ruolo di "maestro". La seconda novità insiste nella creazione di un genere ibrido, che nasce dalla fusione del documentario giornalistico con la narrazione classica finzionale, rintracciabile, sebbene a fatica, nel magmatico flusso audiovisivo del film. La terza, nonché la prima con cui lo spettatore è chiamato a confrontarsi, è la disgregazione del rettangolo cinematografico del fotogramma. Il sabotaggio di Ray, antiautoritario anche nei confronti della dittatura del "formato", spezza la continuità del fotogramma frammentandolo in 2, 3, 4 o 5 schermi separati che proiettano contemporaneamente immagini diverse nel contenitore esploso di We can't go home again. E’ il primo testamento deragliato del corpo/corpus di Nicholas Ray, diversi anni prima che Wim Wenders lo sottraesse alla morte e al tempo con Lampi sull'acqua. Nel centenario della nascita Venezia dialoga con Nicholas Ray, tessendo l'ordito di un vertiginoso e ancora fertilissimo work in progress.

Pubblicato anche su Paper Street

[Cartoline dalla Laguna]

Dunque rieccoci. Come ormai tradizione, per il quarto anno consecutivo la redazione di Cinedrome si trasferisce sul Lido per seguire la Mostra del Cinema di Venezia. Promettiamo agli amici di Cinedrome aggiornamenti e news sui film della 68esima, e quest'anno ricchissima, edizione. In concorso si attendono David Cronenberg, Roman Polanski, Abel Ferrara, Aleksandr Sokurov, Todd Solondz, Johnny To, William Friedkin e molti altri. Comunicazioni "ufficiali" le potrete leggere anche qui. Nell'attesa una piccola ripassata sul Tintoretto con un maestro d'eccezione. 

Ghezzi Guitar

<<Johnny Guitar è il cinema. Non come si dice, giustamente: John Ford (o Jean Vigo o Lang o Rossellini o Hitchcock o Vidor o Walsh o Ophuls o Dovzenko o.. ) è il cinema. Johnny Guitar è il cinema, il personaggio che rinomina Sterling Hayden ("Strano nome – vuoi cambiarlo?") agisce come il cinema. Arriva "dopo". In tempo per "riprendere" l’azione, fotografarla, guardarla, completarla, imbalsamarla, ucciderla, per "amarla" anche. E’ dinamica e insieme di pietra la sua prima apparizione. Cavalca su un costone, il rumore di spari e cavalli giù in basso lo colpisce senza scuoterlo. Si limita a guardare, dall’alto, la rapina che si svolge. Testimone non invitato (deve solo andare a fare il suonatore di chitarra in un saloon, si apprenderà dopo), Guitar si allontana. Sguardo soffice o distratto, o così acutamente fotografico da bastargli un attimo. […]

La dichiarata ossessione di Ray in Johnny Guitar è il tempo, il passare del tempo, il peso del tempo. I personaggi ne sono inseguiti, spinti, oppressi. "Tutto" deve accadere e accade "subito". Pretesto, provocazione, scontro, condanna, pena, morte, amore. Non c’è davvero tempo per ballare, se non appesi a una corda. Qui il gioco lento e decontratto di Hayden-Guitar fa appunto la parte del cinema. Il bicchiere vuoto che rotola sul bancone sta per cadere e Guitar (è il suo ri-ingresso nella prima scena) lo prende al volo, riflessi da pistolero e ottica di precisione. Più tardi, sarà ancora l’ultimo momento quello del suo intervento a salvare Vienna dall’impiccagione. Il "secondo tempo", la "postumità" immediata, l’ultimo momento, quello del cinema. >>

Enrico Ghezzi in Johnny Guitar, Nuova Eri, 1991 – "Paura e desiderio", tascabili Bompiani

“Johnny Guitar”

C’è stato il teatro (Griffith), la poesia (Murnau), la pittura (Rossellini), la danza (Eisenstein), la musica (Renoir). Adesso c’è il cinema. E il cinema è Nicholas Ray ”. (Jean-Luc Godard)

Johnny-Guitar-1

Una specie di assurda, indicibile tensione attraversa il “Johnny Guitar” di Nicholas Ray. E’ una tensione assoluta, esistenziale, devastante. Che trova le sue radici profonde molto oltre gli influssi mèlo e la fiammeggiante sceneggiatura alla base del film. E’ qualcosa che con tutta probabilità ha a che fare con l’essere (o l’essenza) dei personaggi dentro il film di Ray. E che si dipinge splendidamente sulla maschera della immensa Joan Crawford. Una sorta di corto-circuito generato forse da un duplice, insanabile e violentissimo contrasto. O da una duplice, dolorosa, limitazione. Da un lato la impossibilità/necessità alla determinazione spazio-temporale di una materia che come allo stato gassoso tenderebbe ad occupare uno spazio (e un tempo) infinito. Dall’altro la coazione a ripetere propria del cinema, della pellicola, del fotogramma. Una prigionia schiacciante, un perenne stato di schiavitù alla storia che riesce a piegare anche personaggi per loro natura rebel without a cause come i protagonisti dei film di Nicholas Ray. Vienna e Johnny Logan non sono due figure “qualsiasi” in un film “qualsiasi”. Vienna e Johnny sono quelli che si potrebbero definire personaggi “bigger than life”. Hanno la statura di semi-dei di celluloide. Possiedono un magnetismo perturbante che trascende il senso ed il sesso (Vienna è il pistolero donna più uomo che si sia mai visto al cinema). I loro sguardi, le loro battute, la loro postura sono destinati a lasciare il segno. Sui loro volti solcati dalle ombre e incastonati nel buio è palpabile la necessità di esserci, di essere sé stessi, di esserlo fino in fondo e ad ogni costo. Un mitico e aurorale tempo pre-filmico, unica propaggine di esistenza “prima della storia” concessa (e costantemente evocata nelle parole dei protagonisti: “Quanti uomini hai dimenticato?-  Tanti per quante donne ricordi tu.”) stende la sua ombra in(de)finita sui colori accesi del Trucolor di Harry Stradling e li colora di buio. Eppure la loro esistenza così mostruosamente enorme, così leggendaria, così archetipica è condannata a subire la prima sconfitta. La più beffarda: la loro parabola esistenziale è condensata nel tempo (non soltanto finito, ma limitatissimo) di 105 minuti. E nello spazio asfittico del metraggio della pellicola e dell’ampiezza dei fotogrammi. Un paradosso. Un atroce paradosso. Il primo e più atroce scacco. Martirio e santificazione di celluloide.

 

Il secondo polo dialettico che infiamma (letteralmente) i fotogrammi di “Johnny Guitar” è forse individuabile nelle antitesi vita/morte, libertà/dominio, scelta/necessità. “Abbiamo molto vissuto. Ora il problema è vivere un altro po’ ”. Vivere. Vivere sembra essere l’unico imperativo categorico a cui sia Vienna che Johnny hanno deciso di sottomettere la loro ferrea volontà, tenacemente anarchica e libertaria. Vivere fino all’ultimo respiro la loro passione travolgente, il loro lacerante dolore. Vivere ed esserci. Sembra che Joan Crawford e Sterling Hayden abbiamo, in modi diversi, “riempito” a tal punto i personaggi del film con la loro presenza da rendere quei personaggi per forza di cose immortali. Ben prima che Nicholas Ray decidesse di “non far morire” i due protagonisti del film in quel meraviglioso finale appare quindi del tutto evidente che Vienna e Johnny non moriranno comunque. Mai. Il loro desiderio di vivere “un altro po’” sarà esaudito. Avranno la possibilità di vivere e di vivere sempre, ma sempre vivendo la stessa passione bruciante e lo stesso lancinante spasimo. La seconda condanna assomiglia quindi alla prigione dorata di una immortalità tenacemente cercata e drammaticamente fattasi corpo. Vienna e Johnny pagheranno il prezzo del loro amore non con la vita ma con la incessante, continua, perenne esperienza delle loro sofferenze e delle loro pene d’amore. Incatenati sotto la pioggia di una cascata. In un abbraccio che durerà sempre e per sempre.

C’è davvero già tutto il cinema possibile in “Johnny Guitar”. Una atmosfera sublime e torbida, densa di suggestioni noir e turgida di struggente romanticismo. Una struttura narrativa policentrica, complessa, fitta di nascosti riferimenti psicanalitici, che osa nel 1954 fare di due “ragazze con la pistola” le protagoniste del film. Una attenzione inedita e commovente per i personaggi di contorno, qui nobilitati dalle interpretazioni di alcuni grandissimi come John Carradine, Ernest Borgnine, Dennis Hopper. Proprio di Carradine la battuta emblematica che racchiude il senso di una affezione sincera di Ray per tutti i personaggi ai margini (anche della narrazione). “Non mi sono mai sentito tanto importante” dirà il vecchio Tom poco prima che Ray gli conceda il più grande degli onori per un attore: la morte on-stage.

C’è ancora un evidente sottotesto politico eversivo che striscia caustico per la durata di tutto il film nella sceneggiatura di Nicholas Ray e Philip Jordan. E’ il vigoroso j’accuse di un outsider come Ray al marcio che avvelenava la fabbrica dei sogni durante gli anni del Maccartismo e della Caccia alle streghe. La macchina da presa che irrompe con inusitata violenza nel saloon di Vienna non è che una efficacissima metafora del clima di sospetti e repressione che in quegli anni coinvolgeva gran parte degli States. Significativa anche la scelta proto-femminista di affidare i ruoli più importanti e meglio caratterizzati del film a due donne, mentre i due protagonisti maschili vengono in qualche modo dipinti come figure non in grado di reggere il confronto con le titaniche personalità femminili di Vienna ed Emma. Un complesso gioco di forze che culminerà nella climax del magnifico finale, quando dagli equilibri precari del quadrilatero di personaggi emergeranno una volta e per sempre soltanto coloro che sono destinati ad entrare nel mito. 

C’è poi un lavoro letteralmente incredibile di fotografia, opera di Harry Stradling. Sua la paternità del sistema “Trucolor”: un sistema di colorazione rudimentale e a basso costo, incapace di rendere il blu ma in grado di esaltare al massimo e in modo del tutto irreale i cromatismi violenti dell’arancio, del bianco, del nero e le loro violente combinazioni. Una tavolozza di colori barocca ed onirica, dagli accenti espressionisti, che portò Francoise Truffaut a definire il film di Ray “La Bella e la Bestia del western girato in stato allucinatorio”. Fotogrammi incendiati di arancio (delle fiamme che bruciano nel saloon di Vienna), annegati nel nero (degli abiti “listati a lutto” dei perbenisti forcaioli e dei tutori dell’ordine costituito), illuminati dal bianco (del meraviglioso abito di Vienna -“Con questa veste è come avere una lampadina accesa di notte”). C’è una regia essenziale, parsimoniosa, elegantissima. Semplice fino al minimalismo. Senza orpelli, senza sprechi. In una parola c’è, per intero, lo sguardo di un signore come Nicholas Ray.

NICK-RAY

 

Cosa rende un film del genere così speciale? Difficile dirlo. Ogni cerebralismo, ogni rigoroso tentativo di applicazione di un “metodo”, ogni raffinata concettualizzazione è destinata a soccombere sotto le pistolettate fulminanti di Johnny Logan. Frantumi di pensiero logico. Schegge impazzite di semiotica. Razionalizzare il magma è opera per esegeti –entomologi. Il cinema di Nicholas Ray è altro. E trova la ragione ultima della sua grandezza proprio nell’impronta (vivida e totale) che lo stesso Ray ha impresso a fuoco nella sua opera. L’amore di Johnny per Vienna è lo stesso amore, mai sopito, sempre ardente, di Nicholas per Joan. La disperata rivendicazione di autonomia morale e intellettuale di Vienna davanti ai suoi giustizieri è la stessa di Ray, cineasta che non ha mai concesso ingerenze agli studios e alle grandi major nelle sue scelte artistiche. E che ne ha pagato le conseguenze fino in fondo. Impossibile negare la presenza dell’autore in film come questo: Vienna è Nicholas Ray. Johnny Guitar è Nicholas Ray. Le note di Victor Young ammantate di malinconia e appassite di solitudine sono Nicholas Ray. Persino il saloon di Vienna, con il piano, la roulette e quella eccelsa parete di nuda roccia sullo sfondo è Nicholas Ray. Tutto il resto è puro vaniloquio. Il cinema di Ray non ammette vie di scampo. E incatena ieri come oggi al calore e alla struggente bellezza di un’immagine immortale.