Individuare un “film della vita”, per chi abbraccia un amore fedifrago e promiscuo come quello per il cinema, è davvero difficile. Significa stringere l’anello intorno al dito di un solo amore, e lasciarne delusi decine. Per assolvere a questo difficile compito ho scelto quindi di inventare un percorso diverso. Il primo passo è stato individuare una “filmografia della vita”, la più importante, la più decisiva, quella che più ha inciso sul mio modo di vedere. Il secondo calibrare la scelta intorno ad un film-summa, una specie di sintesi di quella stessa filmografia. Alla luce di queste coordinate la scelta è caduta su “La Grande Estasi dell’intagliatore Steiner”, di Werner Herzog. L’esplorazione fin nei recessi più nascosti della enorme filmografia del maestro bavarese è coincisa, nel mio vissuto di spettatore-cinefilo, con la fondamentale scoperta di un cinema diverso o meglio (poi l’ho scoperto) unico. In grado di spingersi molto oltre la magnificenza e la perfezione puramente tecnica, per toccare livelli più profondi di verità e coscienza, cercando costantemente di catturare immagini mai viste, lontane dal logoro grigiore dell’immaginario in cui siamo immersi. “La Grande Estasi dell’intagliatore Steiner” non è certamente il film più “bello” di Herzog, né tantomeno il più celebre. Eppure dentro i 44 minuti di questo insolito e cruciale mediometraggio c’è davvero tutto Herzog. Nella figura di Steiner, campione del mondo svizzero di salto con gli sci nel 1974, c’è la ricapitolazione di tutti i visionari pellegrini dell’assoluto che sfidano i limiti imposti dalla natura della filmografia herzoghiana. C’è la tensione verso l’irraggiungibile e l’ignoto, il mistero di una pulsione autodistruttiva insopprimibile, la misurazione fisica di un salto verso l’abisso. La parabola di Steiner è anticipazione lampante dei Fitzcarraldo, dei Reinhold Messner (Gasherbrum – Der leuchtende Berg ), dei Timothy Treadwell (Grizzly Man), dei Dieter Dengler (Little Dieter Needs to Fly e Rescue Dawn) che verranno. E nel personaggio dell’intagliatore (un artigiano/artista plasmatore del legno/natura) che sente il bisogno di misurarsi con la sfida impossibile del volo c’è, oltre ad un chiaro alter-ego dello stesso Herzog, l’incipit di tutta una teoria del volo e della caduta che sarà asse portante di moltissimo cinema del regista. La dimensione fisica, atletica del cinema di Werner Herzog, in questo film è poi rappresentata nella sua piena corporeità. A questo proposito è interessante leggere cosa ha dichiarato lo stesso Herzog in Incontri alla fine del mondo: “Il salto con gli sci non è solo una prestazione atletica, è qualcosa di molto spirituale: ha a che fare con il modo in cui si governa la paura della morte e dell’isolamento. I saltatori sognano di poter volare e vogliono entrare in quest’estasi che lotta contro le leggi della natura. Perciò ho sempre pensato che Steiner fosse fratello di sangue di Fitzcarraldo, che a sua volta sfida la legge di gravità issando una nave su una montagna”.
Sotto l’aspetto tecnico anche le riprese del film costituirono una vera e propria sfida. Furono utilizzate, per filmare i ralenty, speciali macchine da presa capaci di riprendere a velocità enormemente ridotta (quattrocento o cinquecento fotogrammi al secondo) che mangiavano l’intero rullo di pellicola in pochissimi secondi e richiedevano tempi per le riprese e per la messa a fuoco a dir poco acrobatici. Dal punto di vista stilistico nella “Grande Estasi” si possono individuare molti dei momenti caratteristici della poetica herzoghiana. Innanzitutto la forma del reportage diretto e sul campo (in questo caso gli impianti sciistici di Oberstdorf e Garmisch-Partenkirchen in Germania e di Planica in Slovenia), che Herzog ha personalmente filmato in quasi 50 anni di attività spostandosi negli angoli più remoti e inaccessibili del pianeta. Poi l’elemento della voce narrante di Herzog, qui utilizzata per la prima volta e arricchita dalla presenza in video dello stesso regista, fedele contrappunto al girato ed elemento distintivo di gran parte dei futuri documentari del regista. C’è una delle prime prove dello straordinario flusso di empatia che Herzog riesce a comunicare tramite la sua macchina da presa e la sua presenza, tale da indurre chi gli sta davanti a slanci di grande sincerità e apertura interiore. C’è la questione, centrale nel cinema herzoghiano, del connubio immagini-musica, e proprio per la “Grande Estasi” il gruppo dei Popol Vuh, leggendaria creatura musicale di Florian Fricke che con Herzog ha intrattenuto rapporti artistici strettissimi, ha scritto forse la sua colonna sonora più straordinaria. Il memorabile ralenty in cui Steiner è sospeso in volo e la partitura dei Popol Vuh ne cattura la smisurata vertigine è di diritto tra i momenti più alti di tutto il cinema herzoghiano. Il paesaggio dilatato di questo salto verso l’abisso è, alla pari della panoramica sui mulini a vento in “Segni di Vita”, squarcio rivelato e folle vaticinio: è il luogo in cui il disvelamento di quella che Herzog definisce verità estatica raggiunge la sua acmè. E’ il momento di massima sospensione e di massima potenza evocativa. Ancora, può essere significativo tornare alle parole di Herzog: “Io penso che la qualità più propriamente umana sia quella di fare un passo al difuori di noi. L’ek-stasis è propriamente l’uscire fuori da se stessi, avere l’esperienza di una qualche forma di verità a cui altrimenti non avremmo accesso. La distanza, lo spazio, così come il tempo, diventano qui percezione, non misura astratta.” La spazialità, altro snodo centrale della poetica herzoghiana, assume in quel momento una connotazione universale e insieme profondamente solitaria, salvifica promessa di catarsi: “Io dovrei essere solo al mondo, io, Steiner e nessun’altra forma di vita. Niente sole, niente cultura, io nudo sopra un’alta roccia, senza tempeste, senza neve, senza banche, senza soldi, senza tempo e senza respiro. Allora di sicuro non avrei più paura.”