“Tutta la vita davanti”

Premessa. Il mio personale tasso di incompatibilità con il cinema di Paolo Virzì è sempre stato pericolosamente alto. Non credo di aver mai amato nessuno dei suoi film, nemmeno “Ovosodo” che da molti è considerato il suo migliore. Dopo la visione (nefasta e direi incidentale) di “Tutta la vita davanti” non posso che rimanere sulla mia posizione, e se possibile rafforzarla. I film di Virzì sono sempre stati a mio avviso una specie di furbesco mix tra giovanilismo facile, autoindulgente protagonismo “autoriale” e luoghi comuni assortiti. Uniti ad una certa sciatteria (o quantomeno mancanza di originalità) espressiva. Insomma quanto di peggio il cinema italiano contemporaneo possa offrire. Questo film si inserisce perfettamente in questo filone e affronta (affronta?) il tema (difficile, serio, drammatico) del precariato. Una realtà che condiziona pesantemente la nostra generazione, che influisce su tante importanti scelte di vita, che in molti casi è all’origine di serissimi conflitti e squilibri interiori. Dispiace vedere che anche un tema così delicato e importante possa diventare facile preda del “cannibalismo” più deteriore del nostro italico cinema. Operazione da bocciare in toto, per quanto mi riguarda. Una summa quasi perfetta di difetti sotto vari punti di vista. Tono che oscilla per tutto il film tra il goliardico becero-ammiccante (parodico forse, nelle intenzioni) e il mieloso-zuccheroso-piagnucoloso di certe situazioni. Banalità e insulsaggini a raffica in una inconcludente e confusa sceneggiatura: il sindacalista sfigato e triste con il volto del pur simpatico Valerio Mastandrea, la ragazza-facile-traviata dalla vita-ma dal cuore d’oro-possibilmente-discinta con prole al seguito, l’impiegato vessato che a un certo punto esplode contro il sistema e “si ribella”, la timida neo-laureata in filosofia che sbatte il muso contro le porte delle case editrici. Parecchie sottotrame (tutte peraltro abbastanza inutili) frettolosamente concluse e abbandonate al loro misero destino prima che scorrano i titoli di coda. Parte finale di solenne e scomposta bruttezza, tra morti che resuscitano (una via di mezzo tra “Tutti dicono i love you” e, mutatis mutandis, il finale del primo "Heimat"?), simpatiche nonnine e pranzi felici nell’aia. Scelte musicali che gridano vendetta. Vuoto pneumatico in formato trentacinque millimetri. Cinema che non aggiunge e che non toglie. Sabrina Ferilli imbarazzante. Massimo Ghini appena discreto. Carina ma parecchio sbiadita Isabella Ragonese. Ho letto in giro di accostamenti con Petri (Petri??) e Fellini (Fellini???). No comment.

 

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