[Cartoline dalla Laguna]

Dunque rieccoci. Come ormai tradizione, per il quarto anno consecutivo la redazione di Cinedrome si trasferisce sul Lido per seguire la Mostra del Cinema di Venezia. Promettiamo agli amici di Cinedrome aggiornamenti e news sui film della 68esima, e quest'anno ricchissima, edizione. In concorso si attendono David Cronenberg, Roman Polanski, Abel Ferrara, Aleksandr Sokurov, Todd Solondz, Johnny To, William Friedkin e molti altri. Comunicazioni "ufficiali" le potrete leggere anche qui. Nell'attesa una piccola ripassata sul Tintoretto con un maestro d'eccezione. 

“Che”

 

Mettere in scena la vita di un personaggio che ha attraversato i confini della storia per abitare i territori del mito non è mai impresa semplice. Il rischio è duplice: da un lato si rischia di cadere nella agiografia o nella facile santificazione. Dall’altro, per eccesso di asepsi, si rischia di confezionare un prodotto freddo e  sterilmente didascalico. Sapere a quale distanza porre il proprio sguardo è un elemento fondamentale, capace di influire in modo decisivo sulla messa a fuoco dell’oggetto. Steven Soderbergh, che con questi due film si conferma essere uno dei cineasti più versatili (camaleontici?) del cinema americano, ha scelto di porre una ampia distanza tra il suo film e il mito di Che Guevara, annullando invece ogni distanza sul piano fisico dal corpo di Che Guevara. Il Che Guevara di Soderbergh, magnificamente incarnato da Benicio Del Toro, è un Argentino che si offre allo spettatore in tutta la sua più concreta e dolente fisicità. Sulla stessa lunghezza d’onda vibra la seconda parte del film, la più compatta e incisiva, affresco di quella “Guerriglia” boliviana tentativo di innesto di una idea panamericana di rivoluzione anti-imperialista oltre il confine cubano. Molto più pregnante della comunque apprezzabile prima parte, forse un po’ troppo clinica nella sua ricercata alternanza di piani temporali e cromatici. Il viaggio nei giorni del Che si concluderà con l’annullamento della distanza tra lo spettatore e il suo corpo, con una forse blasfema soggettiva della morte (in)diretta del Che. Curiosamente lo stesso sguardo caduto, rovesciato rispetto al piano della percezione vitale dell’occhio che guarda, ha fatto la sua apparizione anche nel finale del coppoliano “Youth without youth”. Curiosamente due soggettive impossibili di due uomini votati alla rivoluzione, morti o morenti, già passati ad un’altra giovinezza immortale. Due prospettive sul tempo arrestate nel loro fluire e consegnate ancora una volta alla eternità del tempo-cinema, tempo senza tempo.


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“Che – L’Argentino” [***]

“Che – Guerriglia” [****]

“The Informant!”



Steven Soderbergh dopo le fatiche cubane del mastodontico film sul Che deve essersi sentito particolarmente stanco. Nel fisico, soprattutto. E c’è da capirlo. Tanto sfinito da avvertire la necessità fisiologica di riposare le stanche membra con un film, come "The informant!", che ha nel punto esclamativo del titolo il suo più elevato picco di eccitazione. "The informant!" è un film da camera in tutti i sensi. Costruisce l’intera sua fortuna sulla parola e sulla mimica di Matt Damon, che peraltro (va detto) offre una ottima interpretazione. Oltre a questo non c’è molto altro negli interni di "The informant!". L’elemento che forse funziona di meno in questo film è con ogni probabilità anche il suo elemento più interessante e decisivo: la sceneggiatura. Senza dubbio in grado di incuriosire, ma a mio parere difficilmente in grado di "tenere" per tutte le quasi due ore del film. Il film procede, a mò di valanga, per accumulazione, senza tuttavia mai sforzarsi di introdurre elementi di variazione e novità dentro la sua struttura narrativa, che scivola via in modo piuttosto piatto e monocorde fino al (poco incisivo) finale. E Matt Damon, a differenza di quanto si è letto in giro, offre una interpretazione convincente ma del tutto in linea con molte altre della sua carriera, già vista e ancora una volta incastrata dentro lo stereotipo del simulator ac dissimulator. A Venezia surclassato sul piano del ritmo e della brillantezza dal gradevolissimo film del compagno di merende George Clooney, che con "The men who stare at goats" del semi-esordiente Grant Heslow, ha comunque riscattato i destini della banda di Ocean.

[***]