"La" visione lynchiana finalmente, ieri pomeriggio alle 18, grazie al miracolo di un cineforum di provincia, si è dipanata difronte ai miei occhi, su di uno schermo bianco. Bianco è anche il riflesso della luce, luce (e ombra, ovviamente) che può considerarsi il vero filo conduttore dell’esperienza filmica denominata "INLAND EMPIRE". Quando il maestro David Lynch (considerato da molti il più grande cineasta vivente) nel 1997 girò "Lost Highways", quello che sembrava essere il suo film più estremo, tutti si chiesero cosa ci potesse essere di ancora più "oltre". (N.B. Lynch spiazzò tutti girando subito dopo un film essenziale e sublimato come "The Straight story"). Bene, quell’ "oltre" è sicuramente "INLAND EMPIRE", materializzatosi durante lo scorso festival del cinema di Venezia, quando al nostro regista è stato tributato un meritatissimo leone d’oro alla carriera. Ancora una volta Lynch è partito da una scelta personalissima e radicale, confermandosi un vero grande autore del cinema del nostro tempo: l’uso esclusivo della ripresa digitale, mezzo versatile e perfettamente adatto allo scopo di dare corpo alle mille suggestioni visive lynchiane. Abbandonata con una istantanea lacrimuccia di nostalgia la pellicola (e anche la possibilità futura che Lynch possa tornare alla pellicola, a quanto è dato sapere), ai fan non resta che abbarbicarsi ad ogni singolo attimo di questo meraviglioso e allucinante film. Sbagliano totalmente la mira i detrattori che accusano il film di essere del tutto incomprensibile, dipingendolo come una congerie confusa e bislacca di sequenze senza senso. Errore grossolano. Un film come questo non ambisce ad essere compreso (anche se, a guardar bene, le tracce per un tentativo di ricomposizione del racconto ci sono tutte). Mira semplicemente ad essere "interiorizzato" dallo spettatore, a destabilizzare il piano psico-sensoriale del soggetto fruitore, che comunque è chiamato ad un "abbandono" totale al flusso di immagini che gli si parano dinanzi. E sbaglia anche chi dice che non è cinema "per tutti". Falso. Penso anzi che la percezione soggettiva di ognuno, anche dello spettatore meno avvezzo all’occhio lynchiano (forse proprio dello spettatore meno navigato in primis) possa apportare interessantissimi contributi interpretativi al film. E ovviamente è un film che può essere "goduto" da tutti. Grande il contributo degli attori, Laura Dern su tutti (ormai attrice-feticcio per Lynch, nonchè produttrice associata del film), ma non si possono dimenticare le grandi interpretazioni di Harry Dean Stanton e di un magnifico Jeremy Irons. Montaggio dello stesso Lynch. Colonna sonora "fusion", impreziosita dalle note sempre più melo del fedelissimo Badalamenti.
"INLAND EMPIRE" può essere considerato, sul piano delle tematiche affrontate, una vera e propria summa di tutte le ossessioni e i fantasmi che da sempre popolano il sogno/incubo lynchiano. Vediamo le prime che mi vengono in mente:
a) C’è il cambio (sempre spiazzante) di identità del soggetto, più o meno collocato verso la metà del film: vedere "Lost Highways". In genere si tratta di una regressione, di un tornare indietro verso posizioni più basse e degradate. Lo si può interpretare in infiniti modi (e perchè no, mondi) possibili. Certo la dialettica realtà-sogno è alla base di tutto.
b) C’è il tema del doppio, della infinita e caleidoscopica moltiplicazione delle possibilità ("Mulholland Drive"), non soltanto riferito ai personaggi: sono i piani narrativi (e temporali) a moltiplicarsi e confondersi tra loro. Nel nostro caso ce ne sono diversi: la leggenda polacca che ha ispirato il film, la realizzazione del primo film, la realizzazione del secondo film, la realtà che gira intorno alla realizzazione dei film, la fruizione del film stesso (su schermi televisivi e cinematografici). Perchè ogni azione comporta delle conseguenze inevitabili. Molteplici ovviamente, in base alle diverse azioni che stanno all’origine.
c) C’è (fortissima) la dialettica dentro/fuori. Altrove c’erano scatole blu, buchi della serratura o celle di penitenziario. Qui c’è il foro provocato dalla brace di una sigaretta ("Wild at heart") in una lingerie di seta. Ad ogni modo, un "ingresso".
d) Ritorna il tema dell’amore tradito, e delle conseguenze che esso comporta (leggi "tarlo interiore" della gelosia). Alla base, credo, di buona parte della cinematografia Lynchiana.
e) Si ripropone il tema della "strada" (vero e proprio topos), qui declinato in sentiero, viottolo. Un’altra metafora interiore.
Un interessantissimo elemento di novità mi sembra il discorso più classicamente metacinematografico di cinema nel cinema, ad aggiungere ulteriore con-fusione (o forse sublime complessità) al patchwork del film. "INLAND EMPIRE" può anche essere interpretato come una grande allegoria del suggestivo (e contraddittorio) mondo hollywoodiano. Si è paragonato "INLAND EMPIRE" (a proposito, pare che il maiuscolo sia d’obbligo), anche per questa ragione, ad "8 e mezzo". Forse l’accostamento è più azzeccato di quanto possa sembrare.
Voto personale: 10