“Happy family”

Dopo la visione di questo film ho coltivato per un po’ l’idea di una bocciatura muta e silente, per protesta estrema. Forse però due parole due di avvertimento conviene spenderle. "Happy family" è la cattiva copia dei "Tenenbaum" di Wes Anderson, trapiantati in salsa milanese e impastati con una buona dose di espedienti di sceneggiatura alleniani. Salvatores però non è Wes Anderson. E Sandra Milo non è Anjelica Huston. Visto che "Happy family" non fa neanche ridere, davvero non si afferra la necessità, nemmeno recondita, di un film tanto indifendibile. Da un regista come Salvatores peraltro, che qui sembra abdicare ad ogni autonoma ricerca espressiva per abbandonarsi completamente ad un maldestro esercizio di (copia di) stile. Metacinema da quattro soldi, citazionismo insulso e a tratti irritante (l’enorme battuta di Groucho Marx del finale non merita di finire banalizzata in un film così), sequenze in bianco e nero che sembrano lo spot per l’amministrazione municipale di Letizia Moratti. "Potrei andare avanti a raccontare questa storia, ma preferisco chiudere qui".

[* ½]

“Shutter island”

« Notte poi partorì l’odioso Moros e Ker nera
e Thanatos generò il Sonno, generò la stirpe dei Sogni;
non giacendo con alcuno li generò la dea Notte oscura;
e le Esperidi che, al di là dell’inclito Oceano, dei pomi
aurei e belli hanno cura e degli alberi che il frutto ne portano;
e le Moire e le Kere generò spietate nel dar le pene:
Cloto e Lachesi e Atropo, che ai mortali
quando son nati danno da avere il bene e il male,
che di uomini e dei i delitti perseguono;
né mai le dee cessano dalla terribile ira
prima d’aver inflitto terribile pena, a chiunque abbia peccato. »

(Teogonia, Esiodo, vv. 211-222)
 
Nella mitologia greca le Moire, figlie di Zeus e Temi, sono tre divinità depositarie del destino dell’uomo, dalla sua nascita alla sua dipartita terrena. Cloto, deputata a “filare” lo stame della vita, assemblandone i minuti filamenti. Lachesi, a cui è assegnato l’incarico di avvolgere quel nastro intorno ad un fuso. Atropo, dalle lunghe forbici: colei incaricata del compito più gravoso, quello di recidere il filo della vita quando il destino di un uomo giunge al suo compimento. Nella storia del cinema molti grandi film hanno disegnato complesse parabole esistenziali avvolgendole e inscrivendole sul nastro della pellicola. Le forbici del montaggio a rappresentare la possibilità di essere veri “plasmatori” della vita che scorre in quei fotogrammi. David Lynch in “Strade perdute” ha sancito la definitiva subalternità delle logiche narrative del testo filmico nei confronti dell’impero della mente, saldando nello stesso personaggio addirittura due (o più) identità psico-fisiche convergenti e sovrapposte. Martin Scorsese in “Shutter Island” esplora le potenzialità del cinema nella stessa direzione, forzandone la bidimensionalità dello spazio-tempo per espanderne la polisemia. Le forbici del montaggio di Thelma Schoonmaker, in “Shutter Island”, assurgono ad una sorta di devastante e decisiva Moira nell’assemblaggio del girato scorsesiano. Sul piano della costruzione temporale il filmato assorbe e concentra in sè anni (anni?) di vissuto nello spazio di due ore. Su quello della costruzione spaziale, il continuo rimbalzare della esperienza “fisica” dei ricordi dentro l'orizzonte percettivo del protagonista crea infiniti trompe l’oeil di sceneggiatura, e riporta continuamente lo spettatore dentro due contesti di memorie (differenti ma analoghi: uno Storico e uno personale, uno europeo e uno americano) in cui il protagonista del film sente di aver mancato l’occasione/necessità di arrivare in tempo. Thrauma, traum, dream, sogno. Labirintici detour kafkiani si mescolano ad atmosfere densamente cinefile, figlie dei grandi film di registi che Scorsese ama e conosce molto bene: Lang, Fuller, Tourneur, Preminger. La discesa in the mouth of madness di Teddy Daniels non può non ricordare un’altra, intensissima, esperienza di follia contagiosa, come quella del protagonista del fulleriano “Shock Corridor”. O tornando alla filmografia del regista italo-americano, con qualche differenza e alcune interessanti similitudini, il delirio newyorkese e notturno di un film come “Fuori Orario”. O la follia compulsiva e totale di Howard Hughes. O, ancora, la possibilità di un destino altro, ribaltato e sconvolgente, come quello narrato nel finale dell' “Ultima Tentazione di Cristo”. In "Shutter Island" il volto del Cristo sofferente appare per qualche secondo in forma di tatuaggio sulla schiena di un attore, a segnalare, forse, il legame profondo che credo leghi “Shutter Island” al film a lui più simile (a livello di atmosfere e suggestioni) tra quelli del Martin Scorsese degli ultimi 20 anni: quel “Cape Fear” in qualche modo figlio degli stessi padri di celluloide. Cinema maiuscolo e potente, di cupa e feroce bellezza.
 
[**** ½]

“The Hurt Locker”

La guerra di Kathryn Bigelow è una allucinata decomposizione di sensi e distanze. E' l'idea della distanza (del percorrere uno spazio, del colmare un vuoto di presenza) al centro dello sguardo costantemente agitato, schizoide, elettrificato dentro cui siamo come in ostaggio durante l'intera visione/esperienza di "The Hurt Locker". La prima "distanza" percorsa è quella dell'obiettivo della macchina da presa di Kathryn Bigelow, per tutto il film arretrato e avvicinato all'oggetto ripreso lungo il binario impazzito di uno zoom/contro-zoom compulsivo e parossistico. Le altre (innumerevoli) distanze colmate nel film sono quelle che separano i proiettili dai loro bersagli, le cariche inesplose sepolte sotto la sabbia dai corpi degli artificieri chiamati a disinnescarle, le vite dei soldati dalle loro improvvise deflagrazioni.
Lo spazio è quello assolato, polveroso, materico, sudato di un Iraq che è più un luogo della mente che una coordinata geografica su un planisfero. L'incrocio di traiettorie (di pallottole, sguardi, schegge) produce nel (magnifico) film della Bigelow (vale la pena di ribadirlo: una delle più grandi donne con la macchina da presa) un potentissimo effetto di distorsione percettiva e teleologica. Perso di vista il quadro d'insieme (quello che, per capirci, interessava a De Palma nel suo "Redacted"), catapultati in pieno campo minato, superate di slancio tutte le distanze di sicurezza, a dominare sulla comprensione è la partecipazione. Sensoriale in primis. Tutto il resto (la disamina delle ragioni di morte della guerra e il tentativo di denunciare quel "game over") viene consapevolmente lasciato fuori campo. Ad essere messo "a fuoco" è il bio-feedback distorto della dipendenza dal dolore fisico, dal rischio (possibile, e passibile) di annullamento totale ed istantaneo. 

Come sempre nel cinema di Kathryn Bigelow, la pellicola riesce a transustanziarsi in sincopato elettroencefalogramma per immagini, action-painting neuro-sensoriale, ipercinetica esplosione di colori, movimenti, suoni, segni. Supportato dalla ottima fotografia di Barry Ackroyd (curiosamente passato negli scorsi anni anche attraverso un cinema così antitetico a quello della Bigelow come quello di Ken Loach), il film riesce perfettamente nello scopo di trasferire la pienezza sensoriale di un violento conflitto di corpi dentro un torrido contrasto di luci. E colori: i colori primari (rosso, verde) dei fili dei detonatori, il rosso dei corpi-bomba insanguinati, l'ocra del deserto, l'arancio delle fiamme. L'impressionante esplosione all'inizio del film è stata ripresa utilizzando una speciale macchina da presa in grado di catturare 50000 fotogrammi al secondo. Ennesimo impetus di frammentazione infinitesimale, ennesimo punto di rottura che partorisce schegge incandescenti capaci di penetrare occhi, stomaci, cervelli. Innescando il loop perverso di una Storia che, fuori da ogni logica, si riavvolge su sè stessa come un nastro di Moebius alla nitroglicerina.

[**** 1/2]

And the Oscar goes to…

Mai come quest'anno la corsa alle statuette dorate si preannuncia combattuta e avvincente. A fare da contorno al duello in (ex) famiglia Bigelow-Cameron ci sono in gara cineasti come Quentin Tarantino e i fratelli Coen. E per la statuetta per il miglior film sono in lizza ben 10 pellicole, come non accadeva da decenni. La redazione di Cinedrome ha provato a lanciarsi in un divertente gioco dei pronostici. Una via di mezzo tra l'auspicio personale e la ragionevole previsione. Dite la vostra, vediamo chi riesce a beccarne di più. Qui la lista completa di tutti i nominati.

MIGLIOR FILM: The Hurt Locker

MIGLIOR ATTRICE PROTAGONISTA: Sandra Bullock per The Blind Side

MIGLIOR ATTORE PROTAGONISTA: Morgan Freeman per Invictus

MIGLIOR REGISTA: Kathryn Bigelow per The Hurt Locker

MIGLIOR SCENEGGIATURA ORIGINALE: Ethan Coen e Joel Coen per A Serious Man

MIGLIOR SCENEGGIATURA NON ORIGINALE: Nick Hornby per An Education

MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA: Christoph Waltz per Bastardi senza gloria

MIGLIOR ATTRICE NON PROTAGONISTA: Penélope Cruz per Nine

MIGLIOR CANZONE: Randy Neman, "Down in New Orleans" per La principessa e il ranocchio

MIGLIOR COLONNA SONORA: James Horner per Avatar

MIGLIOR FILM STRANIERO: Il nastro bianco (Germania)

MIGLIOR FILM D'ANIMAZIONE: Up

MIGLIORI EFFETTI VISIVI: Joe Letteri, Stephen Rosenbaum, Richard Baneham e Andrew R. Jones per Avatar

MIGLIORE SCENOGRAFIA: Rick Carter, Robert Stromberg e Kim Sinclair per Avatar

MIGLIOR MONTAGGIO: Bob Murawski e Chris Innis per The Hurt Locker

MIGLIOR FOTOGRAFIA: Barry Ackroyd per The Hurt Locker

MIGLIORI COSTUMI: Monique Prudhomme per Parnassus: l'uomo che voleva ingannare il diavolo

MIGLIOR TRUCCO: Aldo Signoretti e Vittorio Sodano per Il Divo

MIGLIOR SONORO: Christopher Boyes, Gary Summers, Andy Nelson e Tony Johnson per Avatar