“The Limits of Control”



Cinema come macchina del tempo e dello spazio. Come tappeto volante fluttuante nelle dimensioni senza tempo degli spazi interstiziali, del vagabondare sradicato e del moto perpetuo. In orbita in “The limits of control” ci sono frammenti siderali di tutto il cinema già attraversato da Jim Jarmusch. C’è il cinema di molti suoi miti e sodali (Alfred Hitchcock e Aki Kaurismaki). Ci sono i corpi lost in space di tanti suoi attori/amici, c’è il corpo errabondo e muto di Isaach de Bankolè. Corpi vicini solo per un attimo, come astri che percorrono traiettorie orbitali diverse e che si sfiorano solo per un istante di decisiva importanza. In una ideale, e immaginifica, staffetta che conduce alla eliminazione di qualsiasi senso o direzione. Film sulla percezione e sulla persistenza di immagini e suoni, onde luminose e onde sonore. I protagonisti del film di Jarmusch, tutti senza nome, sono tele bianche (in attesa di essere dipinte) e casse di risonanza viventi: archivi semoventi di immagini già viste e suoni già sentiti, divenuti imprescindibile bagaglio individuale. Nel loro percorso/missione promuovono il definitivo sabotaggio di ogni rigido oggettivismo applicato all’arte e all’esistenza. E il potenziamento di ogni forma di esperienza sensoriale e percettiva. La fotografia (straordinaria, di Christopher Doyle) e la colonna sonora (splendida, di Boris) mai come in questo film sono valori aggiunti al servizio di una esperienza audio-visiva di devastante e delirante bellezza. No limits, no control.

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